

Nato in Alsazia da padre italiano e madre francese, poi milanese d'elezione con studi universitari alla Bocconi. A Milano è stato gallerista, libraio, editore, assessore alla cultura dal ’93 al ’97, quindi professore universitario con cattedre nel capoluogo lombardo e a Palermo, specializzato nell'arte italiana del XX secolo. Parliamo di Philippe Daverio, conosciuto soprattutto come conduttore (papillon e accento inconfondibili) della trasmissione “Passepartout” (su Raitre ogni domenica alle 13.20), uno dei pochi motivi validi per pagare il canone Rai.
Il legame che c’era nel ‘500 fra ricchezza e amore per le arti può essere paragonato agli investimenti dei molti industriali che oggi acquistano opere d’arte?
“Neanche a parlarne. Perché ai tempi di Palladio questa era la parte vincente del mondo, oggi è la parte che si è periferizzata. La upper class al potere era una classe colta, cosa che oggi non esiste”.
Ma chi decide se un’opera è di valore?
“Per l’architettura spesso decide il consenso popolare, per le arti visive oggi non c’è più il rapporto con la committenza, è solo una cosa legata agli affari. Decidono sei o sette finanzieri, cinque o sei promotori, e per il resto le case d’asta, per i prezzi alti. Per i prezzi bassi la gente segue (il mercato di alto livello N.d.A.) in termini emulatori: se a Parigi valorizzano un Lucian Freud ad 80 milioni, a Montecatini tirano su l’artista locale a 8000 euro”.
Ma questa mercificazione dell’arte è un processo irreversibile?
“No, perché dopo la fase dell’investimento e dell’acquisto a prezzi alti, cicli che durano una quarantina d’anni, l’arte prosegue per strade proprie. Poi aggiunge a margine “Il ricco è felice quando spende tanti soldi. I russi sono felici, mentre gli americani vogliono anche guadagnare. I russi sono più simpatici”.
Arte e economia si incrociano anche nella questione globalizzazione. Mentre il pittore locale vale poco, il prodotto locale di qualità, dai salumi ai vini veneti che adornano la tavolata davanti a noi, vale molto. Ma il prosciutto, nel trasporto, si deteriora, osserviamo noi. “Ma anche l’arte! Si decontestualizza, si rovina…”, ribatte Daverio. Del resto, come ha fatto notare durante la sua conferenza, oggi l’architettura non è fatta per durare, ma per la “real estate”, l’investimento immobiliare che deve essere ammortizzato. Anche per l’arte è così. In effetti la gente vive sempre più in non-luoghi: outlet, case frutto di edilizia scadente.
Queste ultime potranno in futuro diventare strutture urbanistiche stabili, esteticamente valide e curate?
“No, perché non hanno un’identità, sono ‘junk spaces’. Forse non è il destino dell’umanità, ma è certo il problema delle neocostruzioni. Non sono in grado di generare un’estetica, perché il materiale non dura. Del resto non sono fatte per durare e vengono sostituite da strutture figlie dell’estetica del momento. E non creano nemmeno un’etica successiva, proprio perché non lasciano degli esempi, come faceva invece la società greca. Difficile che in futuro si copino le case popolari della periferia di Sofia o di Milano. La nuova sfida è l’equilibrio ecologico: progettare la decrescita, non creare guai ecologici. Smantellare edifici e ricostruire vuol dire sprecare risorse. Sarà un tema sempre più attuale: creare oggetti che durino anziché oggetti usa-e-getta, dai costi limitati sul momento ma dagli alti costi per la comunità. E lo stesso vale per i prodotti alimentari: meglio consumare i prodotto locali”.
Quanto ottimismo…
“Il rischio che la nostra società collassi è molto elevato. Nondimeno mi immagino che l’umanità possa cavarsela. Il problema è quella bottiglia di plastica che vedete sul tavolo: per arrivare fino a qui ha consumato più petrolio di quello consumato per allestire tutto il resto del rinfresco”.
Scritto in collaborazione con E.B.
Pubblicato sul "Corriere Vicentino" del 31 maggio 2008.
Pubblicato sul "Corriere Vicentino" del 31 maggio 2008.