mercoledì, giugno 04, 2008

IL FUTURO DELL’ARTE (E DELL’UMANITÀ)

...secondo Philippe Daverio.




















Nato in Alsazia da padre italiano e madre francese, poi milanese d'elezione con studi universitari alla Bocconi. A Milano è stato gallerista, libraio, editore, assessore alla cultura dal ’93 al ’97, quindi professore universitario con cattedre nel capoluogo lombardo e a Palermo, specializzato nell'arte italiana del XX secolo. Parliamo di Philippe Daverio, conosciuto soprattutto come conduttore (papillon e accento inconfondibili) della trasmissione “Passepartout” (su Raitre ogni domenica alle 13.20), uno dei pochi motivi validi per pagare il canone Rai.

Il legame che c’era nel ‘500 fra ricchezza e amore per le arti può essere paragonato agli investimenti dei molti industriali che oggi acquistano opere d’arte?
“Neanche a parlarne. Perché ai tempi di Palladio questa era la parte vincente del mondo, oggi è la parte che si è periferizzata. La upper class al potere era una classe colta, cosa che oggi non esiste”.
Ma chi decide se un’opera è di valore?
“Per l’architettura spesso decide il consenso popolare, per le arti visive oggi non c’è più il rapporto con la committenza, è solo una cosa legata agli affari. Decidono sei o sette finanzieri, cinque o sei promotori, e per il resto le case d’asta, per i prezzi alti. Per i prezzi bassi la gente segue (il mercato di alto livello N.d.A.) in termini emulatori: se a Parigi valorizzano un Lucian Freud ad 80 milioni, a Montecatini tirano su l’artista locale a 8000 euro”.
Ma questa mercificazione dell’arte è un processo irreversibile?
“No, perché dopo la fase dell’investimento e dell’acquisto a prezzi alti, cicli che durano una quarantina d’anni, l’arte prosegue per strade proprie. Poi aggiunge a margine “Il ricco è felice quando spende tanti soldi. I russi sono felici, mentre gli americani vogliono anche guadagnare. I russi sono più simpatici”.
Arte e economia si incrociano anche nella questione globalizzazione. Mentre il pittore locale vale poco, il prodotto locale di qualità, dai salumi ai vini veneti che adornano la tavolata davanti a noi, vale molto. Ma il prosciutto, nel trasporto, si deteriora, osserviamo noi. “Ma anche l’arte! Si decontestualizza, si rovina…”, ribatte Daverio. Del resto, come ha fatto notare durante la sua conferenza, oggi l’architettura non è fatta per durare, ma per la “real estate”, l’investimento immobiliare che deve essere ammortizzato. Anche per l’arte è così. In effetti la gente vive sempre più in non-luoghi: outlet, case frutto di edilizia scadente.
Queste ultime potranno in futuro diventare strutture urbanistiche stabili, esteticamente valide e curate?
“No, perché non hanno un’identità, sono ‘junk spaces’. Forse non è il destino dell’umanità, ma è certo il problema delle neocostruzioni. Non sono in grado di generare un’estetica, perché il materiale non dura. Del resto non sono fatte per durare e vengono sostituite da strutture figlie dell’estetica del momento. E non creano nemmeno un’etica successiva, proprio perché non lasciano degli esempi, come faceva invece la società greca. Difficile che in futuro si copino le case popolari della periferia di Sofia o di Milano. La nuova sfida è l’equilibrio ecologico: progettare la decrescita, non creare guai ecologici. Smantellare edifici e ricostruire vuol dire sprecare risorse. Sarà un tema sempre più attuale: creare oggetti che durino anziché oggetti usa-e-getta, dai costi limitati sul momento ma dagli alti costi per la comunità. E lo stesso vale per i prodotti alimentari: meglio consumare i prodotto locali”.
Quanto ottimismo…
“Il rischio che la nostra società collassi è molto elevato. Nondimeno mi immagino che l’umanità possa cavarsela. Il problema è quella bottiglia di plastica che vedete sul tavolo: per arrivare fino a qui ha consumato più petrolio di quello consumato per allestire tutto il resto del rinfresco”.

Scritto in collaborazione con E.B.
Pubblicato sul "Corriere Vicentino" del 31 maggio 2008
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sabato, maggio 17, 2008

(in)Catacrismi


15.20 me: Devo scrivere un articolo sui cataclismi
suggerimenti?
15.21 elena: t l'ho detto: la nostra generazione
siamo un cataclisma
e ne siamo vittime



La sera a tavola mio padre spesso si perde e ci fa perdere nei racconti dei "suoi" anni settanta, quando scioperava e manifestava per evitare che la produzione di motori elettrici passasse, per decisione dello Stato, dalla Pellizzari di Arzignano all'Ansaldo di Genova. Ma non erano solo scioperi: il suo impegno politico era attivo e costante. Partecipava alle riunioni del PCI locale, organizzava incontri, concerti, si spostava in lungo e in largo per l'Italia per comizi e manifestazioni, incontrava compagni, parlava con intellettuali e dirigenti. Si svegliava in una tenda a caso alle feste del parco Lambro.
A trent'anni da quel periodo l'interesse dei giovani per la politica è talmente scemato da rendere blasfemo un qualsiasi tentativo di confronto.
Io e miei coetanei siamo sommersi di informazione, tanto che nessuno si può più giustificare dicendo "non sapevo/non potevo saperlo". Ma il paradosso in cui viviamo è che, se da una parte le possibilità di informarsi sono enormi, dall'altra le possibilità di agire sembrano essersi incredibilmente ristrette. I centri di potere ci appaiono lontani, assolutamente non influenzabili dalle nostre volontà. Dove, come, da chi sono effettuate le decisioni chiave riguardanti i problemi sociali globali? Avvengono nello spazio pubblico, con la partecipazione impegnata della maggioranza?
Il paradosso è ancora più interessante se si pensa che al governo c'è un partito che si richiama esplicitamente alla libertà. Ma, parafrasando Hannah Arendt, libertà di fare cosa? Libertà da cosa?
La nostra situazione è ben descritta da un esempio di Slavoy Zizek:
il pulsante «chiudi porte» degli ascensori è quasi sempre un placebo assolutamente inefficace, piazzato lì soltanto per dare ai singoli individui l'impressione di partecipare, di contribuire in qualche modo alla velocità del viaggio in ascensore; ma quando premiamo quel pulsante, la porta si chiude esattamente alla stessa velocità di quando ci limitiamo a premere il pulsante del piano.
Ma è davvero così? Non conta. Conta il fatto che la sensazione sia quella.
Eppure. Eppure a vent'anni non dovremmo concederci il lusso di arrenderci.
Spogliandoci dalle responsabilità e pensando che fenomeni come la globalizzazione, il capitalismo selvaggio, la mafia o la burocrazia siano provocati da un Fato a cui non possiamo opporci. Non scordiamoci che la strategia più efficace dell'equivoco è la ripetizione.
Penso a qualche mio coetaneo impegnato in politica: nessuno crede davvero che lo faccia per passione. E, se davvero è così, io per primo lo considero un ingenuo. Siamo troppo disillusi per credere che il mondo possa cambiare attraverso la politica, per cui o ce ne stiamo a casa cercando di non pensarci (o di non pensare) o cerchiamo altri modi per incanalare le nostre energie. Molti fanno volontariato, altri usano internet per dire quello che pensano, o per diffondere programmi gratuiti (o canzoni, film ecc.), pochi sono veramente incazzati. E' tutto molto diverso da quello che accadeva trent'anni fa.
Sono tempi interessanti quelli che stiamo vivendo?



Y ahora mismo, cuando digo que lo que digo no es lo que quiero decir, tampoco quiero decir lo que he dicho.
(Alejandro Dolina)

(Volutamente) non pubblicato dal Corriere Vicentino del 3 maggio 2008

venerdì, aprile 25, 2008

domenica, aprile 20, 2008

domenica, aprile 06, 2008

Il truce paesaggio




Una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell'ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità”.
Semplice, chiara, lapidaria. La definizione del terzo paesaggio di Gilles Clement, uno dei più celebrati giardinieri del momento, ha sorprendentemente dato adito ad alcune incomprensioni tra gli amici del bar.
Valter, allenatore in seconda di una squadra che gioca il campionato allievi, ha celebrato il “terzo passaggio”, ovvero l’altruismo. Dai la palla al compagno e scatti, quello te la ridà e ti mette di fronte alla porta. A quel punto l’istinto dice di tirare, ma chi ha abbastanza sangue freddo da riuscire a ponderare la situazione capisce che sarebbe meglio rimetterla al centro dell’area, dove il compagno che ci ha messo davanti al portiere aspetta tutto solo di fare gol. Ecco allora che gli spazi indecisi, privi di funzione, sono quegli attimi in cui il ragazzino deve decidere se tirare in porta o alzare la testa e dare un’occhiata al centro. “È quello l’importante – spiega Valter – se il ragazzo dà un’occhiata vuol dire che del calcio ha capito qualcosa. Poi può anche decidere che non c’è modo di passarla ed è meglio provare a tirare, o magari scartare il portiere”. Un plauso ai calciatori, quindi, che sanno che la palla non appartiene né il territorio dell’ombra né quello della luce. Una volta che è entrata.
Gionni, presenza fissa al bancone dal ’95, si è lanciato in una apologia del “terzo pissaggio”, nome nobile della terza pisciata. Fermo restando che la prima pisciata è quella mattutina e la seconda è quella di una qualsiasi pausa durante la giornata, su quale sia la terza pisciata si sono create da tempo due scuole. La scuola di cui Gionni è un adepto celebra da anni il rito della terza pisciata fuori dal pub, a notte fonda, con l’aria beata di chi ha affogato le colpe in un bicchiere, con una pisciata alcolica che chiude idealmente la serata. In quei momenti non ci si preoccupa mai di dove finisca la minzione, probabilmente in un punto che non appartiene né al territorio dell'ombra né a quello della luce. Un’altra scuola, certamente minoritaria ma molto in vista, celebra il rito quasi sempre in un bagno, con cadenza più o meno irregolare, spesso a casa, in un qualsiasi momento della giornata, poco prima di rivestirsi. È la famosa pisciata “di pulizia”, durante la quale si ripensa brevemente alle prestazioni dei singoli, le si guarda alla moviola e spesso ci si dà un voto che quasi mai corrisponde a quello datoci da chi di là, sul letto, sta aspettando di esser portata a casa. O in strada.
Quando Maicòl, che ha appena trascinato vicino a me i suoi 180 kg di simpatia e violenza gratuita, attacca a criticare il terzo pesaggio a cui l’hanno costretto quelli della pesa pubblica sono ormai stufo, un po’ brillo, e ho voglia tornarmene a casa. Per strada raccolgo Linda (piccolo omaggio), donnona ghanese (con quell’h che, come per Thiene, costituisce per me un mistero) che faceva l’autostop dopo dieci ore di conceria. Forse c’è dell’arroganza nel pretendere che un marginalizzato prediliga i margini, che un extracomunitario clandestino si riconosca nell’incolto che popola i lati della strada.
Erbacce secche, chiamatele friche, se vi va, rimarranno erbacce, ma qualcuno magari ci scriverà un libro.

Non pubblicato dal Corriere Vicentino del 5 aprile 2008
(ma voi comprate il giornale lo stesso)

sabato, marzo 22, 2008

Qualcosa di nuovo (sul tuo balcone)


Silvio-Walter (O Ilario Chiapponi)
creato da Pietro Zucca
in collaborazione con Ilaria De Monti



Il centro di Arzignano da poco più di una settimana può fregiarsi della compagnia sopraelevata di Silvio - Walter, il manichino-lettore che svetta dal balcone della redazione. Il suo nome è vittima della par condicio, così come la sua posizione, che guarda al futuro, ma scoreggia al passato, che punta a sinistra, ma con un solido aggancio a destra.
E' piacevole pensare che difficilmente un cane gli piscerà mai sulla gamba.
Alla signora del piano di sotto abbiamo regalato una copia del Corriere per scusarci: la prima mattina che ha visto Silvio-Walter ha pensato che qualcuno si fosse impiccato e l'è venuto in coccolone. La gente passeggia per il centro con la testa piegata all'insù, e molti ci chiedono cosa significa quel "coso tacà sù lì". Difficile rispondergli che serve a fargli guardare in alto (cioè da un'altra parte).

Stamattina il telefono ha suonato e io speravo che mi stesse chiamando il sogno che avevo appena fatto, o che forse stavo ancora facendo. Ma non ho risposto. Mi sono alzato e ho scoperto che il mio cane aveva cacato in lavanderia. Mentre pulivo l'ho rinchiuso in bagno, e lui ha pensato bene di cacare anche lì.
Ho pestato per bene, dicono porti fortuna.



un amico dev'esser per forza un essere vivente?

martedì, marzo 18, 2008

Love is simple?

Pavia, 13 marzo 2008

C'ero andato così vicino, eppure.

Lo spettacolo è andato bene. Andrea ha avuto un megafono, Giacomo ha mantenuto la fidanzata e in generale ci siamo divertiti come bambini ubriachi. Il rettore del collegio A. Volta si è dimostrato talmente interessato da venire a chiederci cosa ne pensavamo delle possibilità che la tecnologia offre a chi vuole comunicare oggigiorno (diosanto! Ma è l'argomento della mia tesi!), peccato per quel mio vizio di perdere i primi dieci minuti di una conversazione per fare bella figura.

Prima e dopo lo spettacolo ho parlato a lungo un linguaggio tutto nostro con una persona non mia.
(anche nella prima riga di questo post.)

Sottilmente irritante, nevvero?